Con ‘Killing Them Softly’ (titolo italiano Cogan – Killing Them Softly), nel 2012 Andrew Dominik firma un’opera spietata e lucida, in cui il noir incontra la metafora politica, il gangster movie si ibrida con la disillusione post-crisi, e il crimine diventa la lente privilegiata per indagare i meccanismi degenerati del capitalismo statunitense. Lontano dalla spettacolarizzazione pulp che ha caratterizzato buona parte del gangster-movie post-Tarantino, il film di Dominik si avvale di un impianto stilistico raffinato, secco, chirurgico, in cui la violenza è gestita con un’economia formale che ne amplifica il peso simbolico.
La trama ruota attorno a Jackie Cogan (Brad Pitt), un sicario ingaggiato dalla criminalità organizzata per ristabilire l’ordine dopo che due piccoli delinquenti rapinano una bisca clandestina protetta dalla mafia. Il furto rompe gli equilibri del sottobosco criminale, e Cogan viene incaricato di rintracciare i responsabili e “sistemare” la situazione in modo discreto e risolutivo.
Narrativa e struttura drammaturgica
Il plot, tratto liberamente dal romanzo Cogan’s Trade di George V. Higgins (1974), si sviluppa attorno a un microcosmo criminale degradato, in cui tre balordi – Frankie (Scoot McNairy), Russell (Ben Mendelsohn) e Johnny “Squirrel” Amato (Vincent Curatola) – organizzano una rapina durante una partita clandestina di poker. L’atto innesca una reazione a catena nel sottobosco mafioso, che incarica Jackie Cogan (Brad Pitt) di ripristinare l’equilibrio attraverso l’eliminazione metodica dei responsabili. Dominik, che firma anche la sceneggiatura, conserva la matrice dialogica del romanzo, facendo del confronto verbale uno degli strumenti primari di tensione narrativa.
Il tempo diegetico è rallentato, rarefatto, quasi anestetizzato, e spezzato da inserti politici che sovrappongono la dimensione del racconto a quella della crisi economica del 2008 e delle elezioni presidenziali. Il montaggio (firmato da Brian A. Kates e Jon Gregory) alterna con intelligenza ellissi narrative e dilatazioni contemplative, cucendo i momenti di suspense su un ritmo funereo, che allude a una decadenza più sistemica che individuale.
Personaggi e interpretazioni
Il Jackie Cogan interpretato da Brad Pitt è un killer professionista elegante e disincantato, custode di un’etica lavorativa cinica e iperrealista. Pitt scolpisce il personaggio con una performance misurata e glaciale, facendo emergere un senso di stanchezza quasi metafisico. Il suo motto – “preferisco uccidere dolcemente, da lontano” – risuona come dichiarazione programmatica di un mondo dove la distanza è l’unica forma di sopravvivenza.
Al suo fianco, il personaggio di Mickey (James Gandolfini), un killer alcolizzato e sull’orlo del collasso psicologico, funge da contrappunto tragicomico: la sua deriva personale riflette in controluce la parabola discendente dell’ideale americano. La coppia McNairy-Mendelsohn, nei ruoli dei piccoli criminali, fornisce un ritratto di miseria umana tanto realistico quanto disturbante, facendo emergere una disperazione atavica, incapace di aspirare a qualcosa che non sia autodistruzione.
Regia e mise-en-scène
La regia di Dominik si distingue per un rigore compositivo quasi ascetico. Le inquadrature, calibrate e spesso statiche, instaurano un rapporto teso tra i corpi e lo spazio, mentre l’uso della profondità di campo crea gerarchie visive che sottolineano la dimensione solipsistica dei personaggi. Dominik costruisce un cinema della sottrazione, in cui la brutalità del gesto è sublimata dalla geometria della messinscena.
Emblematica in tal senso è la scena dell’omicidio al rallentatore, accompagnata da “Love Letters” di Ketty Lester: un momento di lirismo perverso, in cui la morte diventa oggetto estetico, cristallizzato nella sua ambiguità formale. Il contrasto tra l’efferatezza del gesto e la dolcezza della musica amplifica il senso di straniamento, producendo un effetto di spaesamento profondamente disturbante.
Fotografia e paesaggio visivo
La fotografia di Greig Fraser (Zero Dark Thirty, The Batman) è uno dei punti di forza più evidenti del film. I toni desaturati e terrosi, le luci cupe e gli interni claustrofobici evocano un’America post-industriale in putrefazione, in cui ogni speranza di riscatto sembra consumata. Le ambientazioni urbane – motel anonimi, bar decadenti, vicoli sporchi – fungono da scenografia naturale a un dramma morale che ha perso ogni residuo di redenzione.
Fraser gioca sapientemente con il controluce e le fonti luminose artificiali per creare una texture visiva sporca, graffiata, quasi tattile. L’atmosfera è densa, vischiosa, come se ogni fotogramma fosse intriso di polvere, fumo e disperazione. La pioggia, ricorrente, diventa simbolo di una purificazione impossibile, di una colpa che non può essere lavata.
Colonna sonora e sound design
La colonna sonora, curata con uno spirito dichiaratamente ironico, intreccia brani d’epoca (come Heroin dei Velvet Underground) con un sound design che lavora sul rumore di fondo, sullo scroscio della pioggia, sul ronzio urbano. I momenti di silenzio acustico sono fondamentali nella costruzione della tensione, spesso più efficaci di qualunque accompagnamento musicale.
Sottotesto politico e critica sociale
Quello che rende Killing Them Softly un film di rara intelligenza è la sua ambizione teorica. L’intera narrazione è sottesa da un impianto allegorico che affonda le sue radici nella crisi economica statunitense e nella retorica fallimentare del sogno americano. I continui riferimenti (radio, TV, discorsi pubblici) ai discorsi di Bush e Obama fungono da controcanto ideologico all’azione criminale: la retorica istituzionale si scontra frontalmente con la realtà di un’America ridotta a un mercato di carne e denaro.
La battuta finale di Cogan – “America non è una nazione, è un business” – suona come una sentenza definitiva, un epitaffio che chiude il film con la forza di un’accusa.
Un’opera che ‘uccide’ con precisione chirurgica
Killing Them Softly è un’opera cupa, intellettualmente ambiziosa e visivamente potentissima, che fa del minimalismo estetico e del disincanto narrativo i suoi marchi distintivi. Andrew Dominik, al suo terzo lungometraggio, dimostra una maturità registica sorprendente, capace di fondere il realismo crudo con un sofisticato apparato simbolico. Non è un film facile, né consolatorio: è un cinema che respinge, che sporca, che invita lo spettatore a confrontarsi con il vuoto morale del nostro tempo. Una riflessione glaciale sull’America contemporanea, mascherata da gangster movie. Un’opera che colpisce dolcemente, ma uccide con precisione chirurgica.