A New York, un tenente della polizia corrotto e autodistruttivo affonda sempre più nel vortice di droga, alcol e violenza, mentre cerca di risolvere il brutale stupro di una suora. L’indagine lo mette di fronte ai propri demoni interiori, portandolo a un tormentato percorso di redenzione e disperazione. Un viaggio cupo tra peccato e perdono.
Il cattivo tenente (Bad Lieutenant) è un film neo-noir del 1992 diretto da Abel Ferrara, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 1992. In italiano esistono due versioni, una integrale disponibile solo in home video e un’altra tagliata.
Nel 2009 il regista tedesco Werner Herzog realizzò una sorta di remake (stesso personaggio ma storia un po’ diversa) con Nicolas Cage dal titolo Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans.
Degrado morale, carnale e spirituale
Con ‘Il cattivo tenente’, Abel Ferrara firma una delle opere più disturbanti e teologicamente dense del cinema americano indipendente degli anni ’90. Si tratta di un film in cui l’apparato narrativo non è che un pretesto per una discesa allucinata nel degrado morale, carnale e spirituale dell’uomo contemporaneo. Più che un poliziesco, siamo davanti a una parabola sacrilega, dove la figura archetipica del detective si dissolve nel grottesco e nel sacramentale, contaminando i codici del noir con quelli della mistica cristiana.
La performance di Harvey Keitel
Il protagonista – interpretato da uno straordinario Harvey Keitel in una delle performance più radicali mai offerte da un attore americano – non possiede nemmeno un nome. È una scelta significativa: l’anonimato del personaggio ne universalizza la colpa, rendendolo emblema di un’umanità in caduta libera. Egli è un tenente della polizia di New York, divorato da un’insaziabile pulsione autodistruttiva, fatta di abuso di sostanze, prostituzione, estorsione e pornografia. Ma ciò che rende Il cattivo tenente qualcosa di più di un semplice ritratto di depravazione urbana è il modo in cui Ferrara filtra tutto attraverso una lente escatologica, in cui la crisi di fede diventa l’asse portante dell’intero film.
Via crucis profana
L’opera si struttura come una via crucis profana: a ogni nuova scena, il tenente affonda sempre più in un abisso morale che appare senza fondo. La vicenda del brutale stupro di una giovane suora – che sceglie di perdonare i propri aggressori – diventa il detonatore di un cortocircuito teologico, in cui l’idea di redenzione entra in conflitto con l’impossibilità ontologica del perdono. Il rifiuto della vendetta da parte della vittima rappresenta per il tenente un enigma irrisolvibile, che lo costringe a confrontarsi con una spiritualità tanto radicale da risultare quasi aliena. È in questo cortocircuito che Ferrara colloca il cuore pulsante del suo film: l’agonia di una coscienza che non riesce né a morire né a rinascere.
Regia e fotografia
Formalmente, la regia di Ferrara è nervosa, claustrofobica, aderente in maniera quasi pornografica al corpo del protagonista. La camera non si limita a osservare: si accanisce, indugia, espone. In particolare, il nudo integrale di Keitel – mostrato senza alcuna retorica estetizzante – è un atto di violenza percettiva contro lo spettatore, un gesto di verità che spezza ogni illusione cinematografica. Ferrara non filtra, non addolcisce: il peccato è mostrato nella sua crudezza, ma anche nella sua ambigua sacralità. Ken Kelsch, direttore della fotografia, adotta un’estetica naturalistica, con riprese in spazi stretti e volti scarsamente illuminati. Spazi chiusi e opprimenti, soffocanti (auto, corridoi, scantinati) riflettono la spirale auto-inflitta del personaggio.
Soundtrack
La colonna sonora, che alterna brani liturgici e soul lacerato, contribuisce a creare un senso di vertigine emotiva e spirituale. In particolare, la scelta di inserire i canti religiosi nei momenti di maggiore turpitudine – come la celebre scena del pianto davanti al crocifisso – produce un effetto di dissonanza che amplifica il senso di smarrimento del protagonista e dello spettatore stesso.
New York…
È impossibile ignorare il ruolo centrale della tentacolare città di New York, non come semplice sfondo, ma come organismo pulsante di tentazione, violenza e perdizione. Ferrara la filma come un purgatorio senza via d’uscita, popolato da spettri della colpa e del desiderio. In questo, il film si avvicina più alla poetica pasoliniana che a quella di Scorsese, con cui pure condivide certi echi iconografici.
Finale ambiguo
Se il finale può apparire ambiguo – e lo è – ciò rientra perfettamente nella logica dell’opera: il gesto finale del tenente non è tanto una redenzione quanto una forma di espiazione incompiuta, un atto disperato che cerca senso in un mondo che lo ha perduto. Non a caso, Ferrara rifiuta ogni catarsi. Il male non viene risolto né sublimato: è semplicemente esibito, come una piaga aperta nella carne del mondo.
Un capolavoro estremo
Il cattivo tenente è un film estremo, che sfida le convenzioni narrative, morali e cinematografiche. Non si limita a raccontare una storia di disfacimento, ma la incarna. È un’opera che rifiuta la consolazione, che interroga lo spettatore fino a metterne in discussione i fondamenti etici e religiosi. In un panorama spesso accomodante come quello del cinema poliziesco, Ferrara realizza un’opera che è al tempo stesso un atto di fede e di bestemmia, un grido nella notte urbana che echeggia ben oltre i confini del genere. Spettacolare e imperdibile.