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Omicidio Mauro Iavarone, 27 anni dopo parla mamma Rosa: la storia che non dev’essere dimenticata

Piedimonte - Tra lutto, memoria e ricostruzioni distorte, la madre del bambino ucciso osserva una violenza giovanile sempre più feroce

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Ci sono ferite che il tempo non cura. Ci sono nomi che restano sospesi, come richiami silenziosi al senso di ciò che abbiamo perso. Il nome di Mauro Iavarone è uno di questi: un bambino di undici anni di Piedimonte San Germano, strappato alla vita il 18 novembre 1998 da un’aggressione brutale compiuta da un gruppo di giovani. Una violenza improvvisa, priva di logica, che ha segnato per sempre la vita di sua madre, Rosa Forlini.

Per Rosa quel giorno è diventato una linea di confine: c’era la vita prima, e c’è la sopravvivenza dopo. Una sopravvivenza fatta di ricordi, di mancanze, ma anche di continue lotte per la verità. Negli anni, accanto al dolore più naturale e insopportabile — quello della perdita di un figlio — se n’è aggiunto un altro: il peso di narrazioni inesatte, di affermazioni che lei considera non corrispondenti agli atti, di insinuazioni che l’hanno ferita nel profondo.

Mamma Rosa con la bicicletta del piccolo Mauro

Oggi, però, Rosa ha deciso di parlare ancora. Non per riaprire ferite che non si sono mai chiuse, ma per difendersi e difendere Mauro. Per ricordare che la loro storia non è materia da spettacolarizzare, né un racconto da manipolare. È una tragedia vera, umana, che merita rispetto. Ma c’è un motivo ancora più urgente dietro la sua scelta: la sensazione che ciò che ha ucciso suo figlio sia ancora tra noi. Rosa osserva i fatti di cronaca degli ultimi mesi e riconosce un filo che non si è mai spezzato: adolescenti che picchiano, umiliano, riprendono tutto con il cellulare come se la violenza fosse un linguaggio accettabile, un codice di appartenenza.

Ed è allora che la storia di Mauro diventa più che un ricordo: diventa un avvertimento. Un monito che, se dimenticato, ci condanna a ripetere gli stessi errori. Per questo Rosa parla. Perché a distanza di quasi trent’anni, la violenza giovanile non è scomparsa: ha cambiato forma, è diventata più rapida, più spettacolarizzata, più contagiosa. E perché il dolore di un bambino di undici anni non può restare una nota di archivio. Deve essere un punto fermo, un riferimento da cui ripartire per capire che tipo di società stiamo diventando.

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