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‘Zodiac’, quando il thriller diventa un incubo senza fine: Fincher esplora il cuore oscuro dell’America

Con Zodiac, nel 2007 David Fincher firma uno dei film più rigorosi e intellettualmente vertiginosi del cinema americano contemporaneo

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Con Zodiac, nel 2007 David Fincher firma uno dei film più rigorosi e intellettualmente vertiginosi del cinema americano contemporaneo. Lontano dal thriller convenzionale, il regista costruisce un affresco ossessivo e ipnotico, in cui la ricerca del colpevole diventa metafora della ricerca della verità in un mondo che genera informazioni più velocemente di quanto l’uomo possa decifrarle.

La trama

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, la città di San Francisco è sconvolta da una serie di omicidi firmati da un misterioso assassino che si autodefinisce “Zodiac”. Le sue lettere cifrate inviate ai giornali diventano oggetto di un’ossessiva caccia all’uomo da parte di giornalisti e investigatori. Robert Graysmith, disegnatore del San Francisco Chronicle, si ritrova progressivamente risucchiato da un’indagine che diventa per lui una vera e propria ossessione, mentre le piste si moltiplicano e la verità sembra allontanarsi sempre di più.

Un labirinto narrativo

Fincher e lo sceneggiatore James Vanderbilt, adattando il libro di Robert Graysmith, organizzano il racconto secondo una struttura centrifuga: più l’indagine avanza, più la verità si dissolve. Non vi è climax, ma una lenta discesa nel dubbio. L’inchiesta si trasforma in un labirinto epistemologico, dove la precisione dei dettagli – rapporti di polizia, lettere, orari, testimonianze – diventa strumento di smarrimento.

Il film rinuncia al classico arco drammatico per sostituirlo con una spirale di tentativi falliti, errori procedurali, sospetti mutevoli. L’assassino è ovunque e in nessun luogo; ciò che resta è la progressiva disgregazione dei protagonisti, vittime di una verità che si rivela inafferrabile.

Regia e visione: la forma del dubbio

La regia di Fincher è un esercizio di perfezionismo quasi matematico. Ogni inquadratura è calibrata con gelida eleganza, ogni movimento di macchina sembra obbedire a una logica implacabile. La fotografia di Harris Savides trasforma San Francisco in un territorio mentale, immerso in tonalità ocra e verdastre che evocano la corruzione del tempo e della memoria.

L’uso del digitale conferisce alle immagini una chiarezza quasi clinica, in netto contrasto con l’opacità della verità ricercata. Il digitale di Zodiac non è mai sterile: è uno strumento di precisione che cattura l’inafferrabilità stessa del reale. Fincher, come un entomologo, osserva i suoi personaggi da vicino, sezionando le loro ossessioni senza mai giudicarle.

Il montaggio, lento e cadenzato, rifiuta la tensione del crime movie tradizionale. Ogni scena sembra prolungare il tempo dell’incertezza, trasformando il ritmo in uno stato mentale. È un film che non procede per azione, ma per accumulo di dati, ipotesi e frustrazioni.

Personaggi e interpretazioni

Jake Gyllenhaal offre un’interpretazione straordinariamente misurata di Robert Graysmith: il suo volto progressivamente scavato, il tono di voce esitante e la crescente inquietudine rendono palpabile la trasformazione di un uomo comune in ossessionato. Gyllenhaal incarna la curiosità che si fa malattia, la sete di verità che diventa prigione mentale.

Robert Downey Jr., nel ruolo del giornalista Paul Avery, porta in scena il carisma dell’intelligenza autodistruttiva. Il suo disincanto è il contrappunto ironico e tragico al fervore ingenuo di Graysmith. Avery è l’uomo che conosce il meccanismo mediatico e ne è divorato.

Mark Ruffalo, nel ruolo dell’ispettore Dave Toschi, rappresenta la figura dell’investigatore metodico ma impotente: l’uomo che crede nella logica e scopre che la realtà non obbedisce più a leggi razionali. La sua recitazione è fatta di silenzi e sguardi esausti, perfettamente in linea con il tono del film.

Il suono del mistero

David Shire firma una colonna sonora minimalista, che accompagna il racconto con discrezione chirurgica. Ma sono soprattutto i silenzi, le pause, il fruscio delle registrazioni, a costruire la tensione. L’uso delle canzoni d’epoca – dai Three Dog Night a Donovan – ha una funzione temporale e psicologica: non evocano nostalgia, ma decadenza, un mondo che si disgrega sotto la patina di modernità.

Temi e interpretazione

Zodiac non è un film sull’assassino, ma sulla nostra incapacità di accettare l’irrisolto. È una riflessione sulla natura stessa dell’indagine, sul desiderio di spiegazione come impulso tragico e autodistruttivo. In questo senso, Fincher si inserisce nella linea di un cinema del dubbio che va da Antonioni a Pakula, ma lo rielabora con una lucidità quasi clinica.

Il killer, più che un personaggio, è un simbolo: il punto cieco della conoscenza, il buco nero attorno al quale ruotano ossessivamente le nostre interpretazioni. Il film mostra come l’uomo moderno, circondato da informazioni e strumenti, sia più che mai incapace di discernere il vero dal falso.

Un abisso schiacciante

Alla fine, Zodiac non offre soluzioni, ma un’esperienza. È un film che osserva la mente umana mentre tenta invano di dare un senso al caos. La verità non si trova, ma si costruisce, e ogni costruzione è destinata a crollare sotto il peso delle sue stesse ambizioni.

Con una regia di precisione quasi maniacale e una scrittura che rifugge ogni semplificazione, David Fincher realizza un’opera monumentale sull’enigma come condizione esistenziale. Zodiac è un film che non si limita a raccontare il mistero: lo abita, lo scolpisce, lo trasforma in un abisso specchiante nel quale lo spettatore, alla fine, si scopre investigatore e vittima allo stesso tempo.

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