Quando Robert Rodriguez e Quentin Tarantino uniscono le rispettive poetiche, ciò che nasce non è mai un semplice prodotto di intrattenimento, bensì un’operazione di linguaggio che mette alla prova lo spettatore e ridefinisce i confini del cinema popolare. ‘Dal tramonto all’alba’ (1996) rappresenta, in questo senso, una delle più radicali e sorprendenti metamorfosi narrative del cinema degli anni Novanta: un’opera che si apre come un thriller pulp intriso di tensione e violenza realistica, per poi deflagrare in un horror vampiresco surreale, barocco e volutamente eccessivo.
La trama
Due fratelli criminali, Seth e Richard Gecko, dopo una rapina in banca, sono in fuga verso il Messico. Per attraversare il confine, rapiscono una famiglia, i Fuller, e si dirigono verso uno strip club chiamato “Titty Twister”, dove incontreranno il loro contatto. Tuttavia, le cose prendono una brutta piega quando scoprono che il locale è abitato da vampiri…
La regia di Rodriguez: geometria del caos
Robert Rodriguez firma la regia con la sua cifra tipica: un cinema ipercinetico, che mescola ironia e crudeltà, fumetto e realtà. Nei primi atti, la macchina da presa lavora in spazi angusti – motel, auto, bar – utilizzando movimenti nervosi e improvvisi, restituendo l’ansia claustrofobica della fuga dei fratelli Gecko. Poi, con l’arrivo al Titty Twister, lo spazio esplode: i movimenti si fanno più liberi, la regia diventa teatrale, quasi carnascialesca, in sintonia con il radicale cambio di registro narrativo. Rodriguez orchestra il caos con una precisione chirurgica: il sangue che schizza, i corpi che si deformano, le trasformazioni vampiresche, tutto è presentato con un gusto estetico volutamente sopra le righe, che non cerca realismo ma spettacolo.
La sceneggiatura di Tarantino: ibridazione e inganno
La penna di Quentin Tarantino costruisce un’opera che gioca con le aspettative del pubblico. L’inizio è un road movie criminale in linea con Le iene e Pulp Fiction: dialoghi brillanti, ironici e disturbanti al tempo stesso, personaggi carichi di ossessioni e tic, tensione costruita sulla parola più che sull’azione. Poi, con un taglio netto, il film si reinventa: la sceneggiatura si piega al soprannaturale, ribaltando codici e generi.
Questo passaggio non è una semplice “sorpresa” narrativa: è un atto di sabotaggio nei confronti dello spettatore colto, che crede di trovarsi di fronte a un noir atipico e si ritrova improvvisamente immerso in un horror exploitation. Tarantino demolisce così le barriere tra cinema “alto” e “basso”, restituendo dignità al B-movie e ricordando che la settima arte non conosce gerarchie ma solo linguaggi diversi.
Fotografia e messa in scena: il crepuscolo del reale
La fotografia di Guillermo Navarro contribuisce potentemente alla doppia anima del film. Nella prima parte prevalgono i toni caldi e terrosi, che evocano il sud degli Stati Uniti e il Messico come territori liminali, sospesi tra legalità e anarchia. Le inquadrature sono strette, opprimenti, spesso giocate sull’ombra e sui contrasti, sottolineando la tensione psicologica.
Con l’ingresso nel Titty Twister, invece, la tavolozza cromatica esplode: rossi accesi, verdi acidi, gialli incandescenti. La luce si fa artificiale, teatrale, quasi circense. Non c’è più alcuna pretesa di realismo: la messa in scena diventa pura materia visionaria, riflesso del mondo infernale che improvvisamente emerge dalle pieghe della narrazione.
Personaggi e interpretazioni: archetipi in collisione
Il cast rappresenta un ulteriore punto di forza. George Clooney, al suo primo vero ruolo da protagonista cinematografico, conferisce al personaggio di Seth Gecko un carisma ambiguo, diviso tra codice morale e brutalità criminale. La sua interpretazione è asciutta, magnetica, capace di imporre lo sguardo anche nelle sequenze più caotiche. Quentin Tarantino, nei panni del fratello Richard, porta sullo schermo un personaggio disturbante e perverso, incarnando pulsioni represse e allucinazioni che trovano sfogo nella violenza.
Harvey Keitel dona profondità tragica alla figura del pastore Jacob, simbolo di un’America lacerata tra fede e disillusione. Juliette Lewis restituisce invece la fragilità adolescenziale di Kate, oscillante tra paura e risveglio di un’energia latente. E naturalmente Salma Hayek, nel ruolo della sensuale e demoniaca Santanico Pandemonium, incarna l’apoteosi del film: corpo, danza e metamorfosi si fondono in un’immagine che è già icona pop.
Colonna sonora: il ritmo del sangue
La musica, firmata da Tito & Tarantula e da una serie di band tex-mex e blues-rock tra cui non possiamo non menzionare l’immenso e compianto Stevie Ray Vaughan, svolge un ruolo essenziale. Nei momenti iniziali, i brani accompagnano la dimensione on the road, con atmosfere polverose e decadenti. Con l’ingresso al Titty Twister, il sound diventa un inno alla sregolatezza: chitarre distorte, riff ipnotici, ritmi tribali che accompagnano la discesa nell’incubo. La colonna sonora diventa quindi linguaggio narrativo, scandendo con esattezza il momento della rottura tra i due universi del film.
Oltre il genere: un manifesto metacinematografico
Dal tramonto all’alba non è soltanto un film di culto: è una riflessione sul cinema stesso. Rodriguez e Tarantino smontano i codici del genere per riassemblarli in modo imprevisto, costringendo lo spettatore a interrogarsi sulla propria posizione. Si ride, ci si spaventa, ci si sente traditi e al tempo stesso elettrizzati.
In definitiva, l’opera è un atto di libertà: un film che non si piega alle convenzioni, che osa mischiare linguaggi e immaginari, che trasforma il B-movie in terreno fertile di sperimentazione estetica. Oggi, a distanza di quasi trent’anni, resta un punto di riferimento imprescindibile per comprendere come il cinema postmoderno abbia ridefinito il rapporto tra cultura popolare e cultura alta.