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Mindhunter, l’origine del male secondo Fincher: il profiler di serial killer in un’indagine spietata

La recensione della serie tv articolata in due stagioni: un saggio visivo sull’orrore razionale e la psicologia criminale

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Nell’ambito delle produzioni televisive contemporanee, Mindhunter — serie originale Netflix ideata da Joe Penhall e prodotta, tra gli altri, da David Fincher e Charlize Theron — si configura come un oggetto narrativo e stilistico singolare, sofisticato, volutamente distante dalle consuete grammatiche del crime drama. Distribuita in due stagioni tra il 2017 e il 2019, e tratta dal libro Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Serial Crime Unit di John E. Douglas e Mark Olshaker, la serie non solo segna un punto di svolta nel racconto televisivo del crimine, ma si impone come un laboratorio estetico e psicologico di altissimo profilo.

Un’opera sulla soglia: tra procedurale e saggio psicanalitico

Al centro della narrazione vi è la nascita dell’unità di scienze comportamentali dell’FBI alla fine degli anni Settanta, attraverso le figure (semi-fittizie) degli agenti Holden Ford e Bill Tench, affiancati dalla psicologa Wendy Carr. Il vero cuore pulsante della serie, tuttavia, non risiede nell’investigazione classica né nel sensazionalismo delle vicende criminali, bensì nell’indagine epistemologica sul Male e sulla sua articolazione nei contesti psicosociali.

La struttura narrativa rifiuta il modello seriale verticale a favore di un impianto orizzontale, rarefatto, dove le storie di omicidi e i profili dei serial killer non costituiscono episodi chiusi, ma tappe di un’indagine concettuale sull’origine della devianza. Lo spettatore non è chiamato a “scoprire il colpevole”, bensì a condividere l’angosciosa fascinazione per ciò che rende possibile l’orrore — e, ancor più disturbante, ciò che lo rende riconoscibile.

Regia fincheriana e controluce dell’orrore

La regia, curata principalmente da David Fincher (che firma gran parte degli episodi), si presenta come una magistrale lezione di sottrazione visiva. Lontano da qualunque estetica dell’eccesso o della spettacolarizzazione, Mindhunter adotta una grammatica sobria, quasi clinica: inquadrature simmetriche, piani sequenza millimetrici, luci spente, colori desaturati. L’effetto è quello di una messa in scena glaciale, chirurgica, dove l’orrore non esplode mai in superficie, ma si insinua lentamente negli interstizi della quotidianità.

Fincher, maestro del thriller psicologico da Se7en a Zodiac, plasma un mondo in cui la tensione nasce dalla parola, dallo sguardo, dal silenzio. Le interviste ai serial killer — interpretati da attori straordinari, tra cui spicca l’Edmund Kemper di Cameron Britton, autentica rivelazione — diventano veri e propri drammi socratici, in cui la verità emerge come effetto collaterale di un dialogo disturbato e disturbante. Il montaggio, calibrato al millimetro, restituisce un senso costante di sospensione e claustrofobia, come se l’osservazione del male comportasse inevitabilmente la sua interiorizzazione.

La mente come territorio narrativo

Il principale merito concettuale di Mindhunter è quello di aver traslato l’oggetto del crime — l’omicidio seriale — da fatto a sintomo. Non ci si interroga su “chi ha ucciso?”, ma su “perché l’ha fatto?” e, soprattutto, “cosa dice di noi il fatto che riusciamo a comprenderlo?”. La serie non edifica barriere nette tra normalità e follia, tra giustizia e devianza: al contrario, mostra come la costruzione del profilo criminale implichi una pericolosa identificazione, una zona grigia dove l’investigatore, pur nell’intento di dominare il caos, finisce per esserne contaminato.

Holden Ford (Jonathan Groff), incarnazione della mente analitica e ossessiva, attraversa un arco narrativo che lo trasforma da brillante innovatore a vittima delle sue stesse intuizioni. La tensione psicologica interna ai personaggi non è accessoria, bensì centrale: la serie ci mostra, con rigore quasi fenomenologico, come lo sguardo sull’abisso sia sempre uno specchio, e come la creazione di un linguaggio del crimine (il concetto stesso di “serial killer” nasce qui) implichi una ridefinizione del concetto di umanità.

Sociologia del crimine e psicanalisi dell’istituzione

Non è casuale che Mindhunter sia ambientata a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, un periodo in cui l’America attraversava una profonda crisi d’identità tra fine del sogno kennediano, guerra del Vietnam, Watergate, crescita incontrollata del crimine urbano e smantellamento della fiducia nelle istituzioni. Il crimine seriale diventa, in questa cornice, l’emblema di una società che non riesce più a riconoscersi. L’FBI stessa, inizialmente riluttante a dare credito ai nuovi metodi di profilazione psicologica, appare come una struttura monolitica e cieca, più preoccupata della propria immagine che della comprensione del reale.

Wendy Carr (Anna Torv), personaggio ispirato alla psicologa Ann Wolbert Burgess, rappresenta l’intelligenza accademica costretta a fare i conti con un ambiente ancora profondamente maschilista e conservatore. Il suo sguardo analitico si scontra con il machismo latente dei colleghi e con l’impossibilità di conciliare scienza e burocrazia, teoria e pratica, mente e istituzione.

Un’opera mancata solo nella durata, non nella visione

L’interruzione prematura di Mindhunter dopo la seconda stagione rappresenta una delle più grandi occasioni mancate della serialità moderna. Le premesse erano quelle di una progressiva esplorazione degli anni Ottanta e dei grandi casi — da BTK a Manson — che avrebbero potuto costituire non solo nuovi snodi narrativi, ma nuove declinazioni del concetto di male.

Eppure, anche nella sua incompiutezza, Mindhunter rimane un unicum: un’indagine spietata e sofisticata sulla mente umana, che utilizza il thriller non come strumento di intrattenimento ma come dispositivo critico, come lente d’ingrandimento sul lato oscuro della modernità. Un’opera che non urla, ma sussurra — e proprio per questo inquieta in modo duraturo e profondo. Imperdibile per la straordinaria coerenza stilistica, l’intelligenza teorica e l’eleganza cinematografica con cui reinventa il linguaggio del crime televisivo.

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