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Perdita Durango: il viaggio estremo di Álex de la Iglesia tra noir, road movie ed exploitation

La recensione della pellicola del 1997: un’opera disturbante, lirica e incendiaria che ha lasciato il segno nel film di genere

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Perdita Durango è un film del 1997, diretto da Álex de la Iglesia, tratto dal romanzo ’59 Degrees and Raining: The Story of Perdita Durango‘ dello scrittore statunitense Barry Gifford.

La storia segue Perdita, una donna dura e senza scrupoli, che si unisce a Romeo Dolorosa, un criminale coinvolto in rituali santeria e traffici illegali. I due rapiscono una giovane coppia di turisti americani come parte di un oscuro rituale, mentre trasportano un carico illegale verso Las Vegas. Il loro viaggio si trasforma in una fuga violenta e surreale tra crimini, inseguimenti e scontri con la legge. Tra superstizione, follia e brutalità, Perdita si ritrova a fare i conti con se stessa in un crescendo di caos e sangue.

Alex de la Iglesia, maestro del cinema iberico dall’estetica visionaria e audace, dirige una pellicola che si distingue per la sua intrinseca complessità stilistica e tematica. Il film si muove fluido tra noir contemporaneo, road movie e pulp exploitation, creando un amalgama esplosivo e inquietante. Tra le opere più disturbanti e controverse degli anni ‘90, il lungometraggio si impone come un oggetto filmico disturbante e inclassificabile. È un film che sfida la categorizzazione, oscillando con maestria tra exploitation, road movie, e allegoria postmoderna sulla violenza sistemica e sull’identità border-line. Ma è soprattutto attraverso i suoi personaggi che questa pellicola acquisisce spessore e ferocia, articolando una riflessione cruda e spietata sulla devianza, sull’eros criminale e sull’anarchia emotiva.

La regia di Álex de la Iglesia: estetica del caos e controllo del disordine

De la Iglesia dirige con una mano fermissima e uno sguardo spietatamente ironico. Il suo stile è un’orgia visiva che mescola exploitation, religione apocrifa, linguaggio pubblicitario e iconografia cinematografica popolare, in un continuo cortocircuito tra il sacro e il trash. La macchina da presa è mobile, inquieta, spesso grandangolare, a tratti psicotica: entra nei corpi, esplora i deserti come visioni dantesche, esalta la violenza fino alla caricatura, per poi virare improvvisamente in momenti di cupa introspezione.

L’uso della fotografia (a cura di Flavio Martínez Labiano) è saturo, sporco, con colori primari violenti che accentuano il senso di un mondo senza filtri. La messa in scena è teatrale e simbolica, ma sempre visceralmente connessa alla realtà sociale del border messicano-americano. Il regista si muove come un demiurgo postmoderno: costruisce un universo infernale che non cerca di spiegare, ma di far esplodere davanti agli occhi dello spettatore.

Il montaggio frenetico – spesso volutamente scomodo – contribuisce a creare un senso di sfasamento percettivo, coerente con l’orizzonte psichico dei suoi protagonisti. De la Iglesia non impone un punto di vista morale, ma spalanca una finestra su un universo amorale, brutale, carnale e sacro al tempo stesso.

Perdita Durango: la femmina mitica, sacerdotessa del caos

Il personaggio eponimo, interpretato da una magnetica Rosie Perez, è una figura archetipica, ma rielaborata attraverso la lente grottesca e barocca di De la Iglesia. Perdita non è solo una femme fatale moderna: è una forza primordiale che sovverte ogni schema morale. Eroina negativa, ma irresistibilmente carismatica, incarna l’iconografia della ribellione femminile radicale: è sessualmente autodeterminata, amorale, violentemente pragmatica. Il suo linguaggio corporeo – selvaggio, predatorio, sempre sul filo del sadismo – rivela una costruzione del personaggio che sfida la dicotomia vittima/carnefice e ridisegna i contorni della soggettività femminile nel cinema pulp contemporaneo.

Perez dona al personaggio una stratificazione inaspettata: sotto la scorza da pantera sociopatica, affiora un dolore represso, una tensione latente verso una redenzione impossibile. La sua Perdita è madre mancata, amante cannibale, guerriera in lotta contro un mondo che non ha mai contemplato un posto per lei se non ai margini.

Romeo Dolorosa: lo sciamano psicotico, incarnazione dell’ibrido post-coloniale

Javier Bardem, in una delle sue interpretazioni più eccessive e visionarie, dà vita a Romeo Dolorosa, criminale, santone voodoo, narcofilosofo e performer del male. È una figura che richiama gli stilemi del trickster mitologico, dell’eretico e del predicatore folle. Bardem lo interpreta con una fisicità esasperata, quasi animalesca, e con una vocalità che oscilla tra l’incantesimo e la minaccia.

Romeo è un soggetto contaminato, culturalmente e moralmente: incarna il sincretismo religioso caraibico (il voodoo come religione-spettacolo), la deriva messianica del potere carismatico, ma anche l’illusione che la violenza possa essere sacralizzata. De la Iglesia lo costruisce come un’emanazione postmoderna di Kurtz, un dio apocrifo immerso nella selva americana del narcotraffico e del cinema B.

Il duo simbolico: eros e thanatos in marcia

La coppia Perdita-Romeo funziona come un organismo binario, dove erotismo e morte si fondono in una danza barocca e autodistruttiva. Il loro viaggio non è soltanto geografico, ma metafisico: è una peregrinazione attraverso gli inferi dell’identità americana e latinoamericana, in cui il confine (il border) non è più solo topografico ma ontologico. Loro sono i nuovi Adamo ed Eva di un Eden depravato, testimoni e carnefici della decomposizione del sogno americano.

Willie Woody Dumas: incarnazione della legge impotente

In un ruolo apparentemente secondario, James Gandolfini – qui nei panni dell’agente DEA Dumas – offre una performance che, in retrospettiva, anticipa molte delle sfumature che esplorerà più tardi nel suo iconico Tony Soprano. Il suo personaggio è un rappresentante della legge, ma non della giustizia: è l’emanazione stanca e corrotta di un sistema in decomposizione. Nonostante le apparenze da uomo d’ordine, Dumas si muove con la stessa brutalità cieca dei criminali che combatte, ma senza l’energia vitale che anima Perdita e Romeo.

Gandolfini scolpisce il suo personaggio come un essere patetico e minaccioso allo stesso tempo, oscillante tra frustrazione e furia repressa. In lui si concentra la critica più diretta del film alla retorica americana della legalità: il suo intervento, tardivo e violento, è il colpo di grazia che certifica il fallimento delle istituzioni. Laddove Perdita e Romeo distruggono il mondo con un’estetica da messia nichilisti, Gandolfini rappresenta il volto grigio e burocratico della decadenza sistemica.

Il confronto finale con i protagonisti, giocato più sul disincanto che sullo scontro epico, è il simbolo di una guerra già perduta. Non ci sono eroi in Perdita Durango, solo maschere che si sfaldano nel delirio collettivo.

Gli altri personaggi secondari: riflessi deformi del mondo-mondo

I personaggi di contorno, dai due adolescenti rapiti (interpretati da Harley Cross e Aimee Graham) fino ai criminali di secondo piano, funzionano da specchi infranti che rifrangono la luce oscura dei protagonisti. Le vittime diventano complici, gli innocenti si scoprono pervertiti in potenza. Nessuno è salvo. L’universo morale di Perdita Durango è circolare, claustrofobico, senza catarsi.

Antropologia del delirio

Attraverso i suoi personaggi, Perdita Durango si fa esperienza liminale, rito cinematografico che abbatte i confini tra pulp, misticismo e disfacimento culturale. Álex de la Iglesia non dirige tanto un film quanto un’esplosione controllata di archetipi, simboli e carne, e lo fa con una coerenza stilistica feroce e un gusto per l’eccesso che ricorda Peckinpah sotto l’effetto del peyote.

In questo universo contaminato e onirico, Perdita e Romeo sono avatar postmoderni della perdita – non solo della morale o dell’amore, ma della possibilità stessa di significato. Sono gli ultimi romantici in un mondo che ha perso il linguaggio per comprenderli. Un’opera disturbante, lirica e incendiaria. I personaggi incarnano l’abisso e la seduzione dell’anarchia assoluta.

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