Cassino – Una giovane donna uccisa. Un ragazzo che forse avrebbe potuto essere salvato da se stesso, se solo qualcuno a livello istituzionale se ne fosse occupato per davvero. Due destini spezzati, entrambi figli – in modi diversi – di un sistema che ancora oggi fatica a farsi carico della sofferenza psichica.
Il 27enne Sandro Di Carlo, originario di Cassino, è accusato dell’omicidio di Yirelis Santana, 34 anni, dominicana. La donna è stata trovata senza vita, colpita da quattro coltellate. Un delitto brutale, avvenuto – secondo la ricostruzione dell’accusa – nel corso di un incontro privato, segnato da un improvviso scatto d’ira dell’imputato. La procura ha chiesto 24 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Ma nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Cassino, presieduta dal giudice Claudio Marcopido, la difesa di Di Carlo ha acceso i riflettori su un’altra verità. Quella che parla di una lunga storia di disagio psichico, di abbandono istituzionale e di sentenze rimaste lettera morta.
A rappresentare Sandro Di Carlo sono gli avvocati Sandro Salera e Alfredo Germani. Durante l’arringa, il legale Salera ha ricostruito un quadro clinico allarmante: il giovane è affetto da disturbo borderline della personalità, un disagio che – secondo due sentenze definitive, una del 2019 e una del 2022 – avrebbe dovuto condurlo a un ricovero h24 in una struttura psichiatrica. Quelle decisioni giudiziarie, però, non sono mai state eseguite. Né da chi doveva vigilare, né dai servizi sanitari. «Se quelle sentenze fossero state rispettate, oggi non staremmo celebrando questo processo. E Yirelis sarebbe ancora viva» ha affermato Salera con forza. Per la difesa, l’omicidio non può essere letto con le lenti della piena lucidità: Di Carlo avrebbe agito in stato di totale alterazione, reso ingestibile da una malattia peggiorata negli anni, da una terapia interrotta, da una vita senza più riferimenti.
Nell’arringa, il legale ha parlato di un «drammatico incontro di anime devastate da un tragico e comune vissuto». Un’affermazione che non cancella la gravità di quanto accaduto, ma che invita a leggere la vicenda come l’epilogo di due fragilità che si sono scontrate in una tragedia. «Il comportamento di Sandro dopo l’omicidio – ha sostenuto ancora Salera – è stato privo di logica, afinalistico: ha lasciato impronte ovunque, ha pregato accanto al corpo della vittima, ha portato via un orologio di poco valore. Tutti segnali di una mente confusa, dissociata, incapace di intendere e di volere».
Il collega Germani ha invece sottolineato come nel processo non siano mai state esplorate a fondo altre possibili ipotesi, tra cui un eventuale litigio con altre persone. Ma il centro della difesa resta uno: l’infermità mentale. I legali hanno chiesto che venga riconosciuta la totale incapacità di intendere e volere, e solo in subordine la semi-infermità, che permetterebbe comunque uno sconto di pena. A colpire più di ogni altro aspetto è il senso di abbandono istituzionale che aleggia su questa vicenda. Di Carlo era già noto ai servizi sanitari e giudiziari, dichiarato semi-infermo di mente da due tribunali, ma mai realmente seguito. Nessuna struttura lo ha preso in carico, nessun percorso terapeutico è stato portato avanti. La sua condizione è peggiorata, fino al tragico epilogo.
«È stato lasciato solo dallo Stato», ha detto Salera. Un’accusa che pesa come un macigno, soprattutto in un momento in cui la salute mentale è ancora il fanalino di coda del sistema sanitario nazionale. Il pubblico ministero Alfredo Mattei non ha dubbi: per lui, Sandro Di Carlo è il solo autore del delitto, avvenuto in un contesto di “violenza selvaggia” durante un incontro intimo. La sentenza della Corte d’Assise è attesa per il prossimo 21 luglio. In quella data, si deciderà non solo la sorte giudiziaria di un ragazzo malato, ma forse anche un primo punto di riflessione collettiva sul peso delle omissioni istituzionali.