‘Le strade perdute’, il labirinto di Lynch tra realtà e incubo: un noir schizofrenico e imperdibile

La recensione del capolavoro datato 1997 a firma di David Lynch, che mescola thriller psicologico, noir e surrealismo

Una storia criminale inquadrabile nell’ambito del noir moderno, caratterizzata tuttavia da immaginario e tematiche surreali: “Le strade perdute” (titolo originale: Lost Highway) è un film del 1997 diretto da David Lynch, che mescola thriller psicologico e noir sublimandoli nell’onirico.

Una visione disturbante tra il reale e l’allucinatorio

La pellicola segna uno dei momenti più enigmatici e radicali del percorso artistico di David Lynch. Presentato al Sundance Film Festival e accolto con sconcerto e fascinazione, il film si impone come un’opera liminale, un nodo cruciale nella filmografia lynchiana: l’anello di congiunzione tra il minimalismo onirico di Eraserhead e l’ambiguità psicologica di Mulholland Drive. Girato nel 1996 e distribuito nel 1997, il film rappresenta un culmine di estetica perturbante, una sinfonia noir che fonde cinema sperimentale, thriller psicologico, body horror e metafisica dell’identità.

Struttura narrativa e forma filmica: l’estetica del loop

Le strade perdute si articola in due macro-sequenze apparentemente autonome ma profondamente interconnesse, come due sogni che si rincorrono e si contaminano a vicenda. Il film si apre con la vicenda di Fred Madison (Bill Pullman), sassofonista introverso e gelido, sposato con la sfuggente Renée (Patricia Arquette). Una serie di videocassette anonime, contenenti riprese notturne della loro casa, culmina in un’esplosione di paranoia e sospetto. Dopo essere accusato dell’omicidio della moglie, Fred svanisce dalla sua cella, sostituito da un altro uomo: Pete Dayton (Balthazar Getty), giovane meccanico losangelino coinvolto in una relazione con Alice (di nuovo Arquette), enigmatica femme fatale legata a un gangster.

La struttura si configura come una spirale temporale, un Möbius narrativo in cui le identità si sfaldano, si rifrangono, si reincarnano in nuove forme. L’ossessione di Lynch per la disgregazione dell’Io si incarna nella forma stessa del film: la cesura centrale non è solo uno snodo narrativo, ma una frattura epistemologica, un punto cieco che separa — e al tempo stesso unisce — due universi paralleli contaminati da desiderio, colpa, repressione e violenza.

Il lavoro sul suono e la musica: una partitura dell’angoscia

L’apparato sonoro di Lost Highway è parte integrante del dispositivo filmico, non un accompagnamento ma una presenza attiva, carnale, invasiva. Il contributo di Angelo Badalamenti si mescola in modo magistrale con quello di Trent Reznor (che cura anche la colonna sonora ufficiale), David Bowie, Marilyn Manson, Barry Adamson e i Rammstein. Il risultato è una tessitura sonora che oscilla tra l’inquietudine atmosferica e l’aggressività industriale, capace di rendere uditiva l’angoscia esistenziale dei personaggi.

Il sound design è calibrato con meticolosità chirurgica: i silenzi sospesi, i suoni ambientali amplificati, le dissonanze improvvise costruiscono un paesaggio mentale che amplifica la percezione del tempo deformato, del pericolo imminente, della realtà alterata. Il suono diventa architettura invisibile del film, tracciando strade perdute nell’inconscio dello spettatore.

Direzione della fotografia e costruzione dello spazio

La fotografia di Peter Deming, collaboratore storico di Lynch, adotta una palette cromatica plumbea, fatta di neri opprimenti, luci al neon, riflessi metallici e saturazioni ocra che suggeriscono un mondo corrotto e malato. L’uso del chiaroscuro evoca il noir classico, ma lo porta in territori più astratti, quasi espressionisti, in cui le ombre sono proiezioni della psiche, superfici su cui si imprimono i fantasmi dell’identità.

Lynch lavora sullo spazio come un architetto onirico: corridoi che non conducono da nessuna parte, stanze che mutano configurazione, deserti notturni che inghiottono le figure. Gli ambienti non hanno coerenza topografica ma rispondono a logiche emotive e simboliche, come nei sogni. In tal senso, la casa dei Madison diventa uno spazio della mente, la cella un grembo claustrofobico, l’officina di Pete un rifugio fallace, il deserto un purgatorio.

Attori e personaggi: maschere, doppioni e doppi

Il lavoro attoriale in Lost Highway si basa su una recitazione rarefatta, alienata, spesso monotona in apparenza, ma profondamente calcolata. Bill Pullman è una presenza gelida, trattenuta, quasi implosa; Balthazar Getty il suo doppio speculare, impulsivo e carnale. Patricia Arquette dà vita a due archetipi femminili — la moglie eterea e la femme fatale — che si riflettono e si deformano l’una nell’altra, rendendo il suo personaggio un labirinto vivente.

Menzione necessaria per Robert Blake, nel ruolo disturbante dell’“uomo misterioso”: materializzazione dell’inconscio, del voyeurismo assoluto, del doppio demoniaco. La sua apparizione — con volto cadaverico, sopracciglia rasate e sorriso impassibile — resta una delle immagini più sinistre dell’intero cinema lynchiano.

Tematiche: identità, colpa, rimozione

Il cuore filosofico del film è la crisi dell’identità. Lost Highway non offre risposte né spiegazioni razionali: è un viaggio attraverso i meandri dell’Io, un’allucinazione cinematografica che tematizza la colpa, il desiderio represso e la dissociazione psichica. Lynch, insieme al co-sceneggiatore Barry Gifford, costruisce un racconto psicoanalitico che trova le sue radici nel concetto freudiano di “ritorno del rimosso” e nella teoria lacaniana del “registro reale”.

Fred/Pete è una soggettività spezzata, incapace di affrontare le proprie pulsioni e dunque costretta a rifugiarsi nella costruzione di una nuova realtà: un delirio autodifensivo che implode su se stesso. L’intero film può essere letto come un gigantesco meccanismo di negazione: la mente di Fred che rifiuta di affrontare l’assassinio della moglie e si reinventa un’esistenza parallela, destinata però a crollare sotto il peso della verità rimossa.

Un cinema dell’ambiguità radicale

Lynch rifiuta qualsiasi linearità narrativa, qualsiasi interpretazione univoca, costringendo lo spettatore a una fruizione attiva, spesso spiazzante. La sua regia lavora sul dettaglio, sull’interstizio, sulla tensione tra visibile e invisibile. Il tempo si frantuma, la causalità si dissolve, la logica cede il passo al simbolico. In questo senso, Lost Highway non è un film da comprendere, ma da esperire.

Un’opera-labirinto

‘Le strade perdute’ è un’opera totalizzante, disturbante e potentemente evocativa. Una riflessione sul cinema stesso come dispositivo onirico e psicanalitico, un viaggio che non porta alla verità ma ne rivela la vacuità. Come in una partitura di Schönberg o in un dipinto di Bacon, l’opera di Lynch non consola, non spiega: disorienta, scava, avvolge.

È un film che vive nel suo rifiuto dell’evidenza, nella sua ambiguità strutturale e semantica, nel suo essere al tempo stesso noir e incubo, thriller e tragedia dell’Io. Un classico del cinema postmoderno, capace di riscrivere le coordinate della narrazione e di ridefinire i limiti del visibile. Capolavoro assoluto, pietra miliare della settima arte, imperdibile.

Dettagli

Titolo originale: Lost Highway
Regia: David Lynch
Sceneggiatura: David Lynch, Barry Gifford
Fotografia: Peter Deming
Montaggio: Mary Sweeney
Musica: Angelo Badalamenti, David Bowie, Trent Reznor, Rammstein, Barry Adamson
Anno: 1997
Genere: Thriller psicologico, noir, horror esistenziale
Durata: 134 minuti

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Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli, giornalista pubblicista, specializzata in sport ma con una passione anche per musica, cinema, teatro ed arti. Ha collaborato per diversi anni con il quotidiano Ciociaria Oggi, sia per l'edizione cartacea che per il web nonché con il magazine di arti sceniche www.scenecontemporanee.it. Ha lavorato anche come speaker prima per Nuova Rete e poi per Radio Day, e presentatrice di eventi. Ha altresì curato gli uffici stampa della Argos Volley in serie A1 e A2 e del Sora Calcio.

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