Patrick Bateman è bello, anzi bellissimo. Colto, curato. È il giovane rampollo di una famiglia ricca. Lavora a Wall Strett e vive a Manahattan. I suoi amici sono i colleghi Timothy, David, Patten e Craig: con loro frequenta locali alla moda, quelli dove gira la migliore cocaina della città, con loro discute di ristoranti, drink, palestre, look maschile e donne. Ma la sua vita, che sembra così banalmente incanalata sui binari della superficialità, nasconde un’inquietante verità. Quando a New York è notte, l’affascinante broker dà sfogo a tutte le sue malate e sadiche perversioni, uccidendo, mutilando, torturando. E non fa distinzioni tra ragazze, bambini, animali e senzatetto. È lui il protagonista di American Psycho. Dal volume è stato tratto l’omonimo film di Mary Harron, datato 2000, con uno strepitoso Christian Bale a dare il volto a Patrick Bateman.
Ultraviolenza patinata e satira consapevole
Il libro di Bret Easton Ellis è roba tosta. Pubblicato nel 1991, American Psycho è un vero gioiello della letteratura postmoderna: è trasgressivo e disturbante, ma allo stesso tempo umoristico (humor nero, sia ben chiaro). Fa anche della satira per niente celata alla società turbocapitalistica della fine degli anni ’80, ai suoi protagonisti yuppie e stereotipati, così tanto omologati che spesso si confondono tra loro. Vanno tutti dallo stesso barbiere (ma il taglio di Patrick è meglio degli altri), tradiscono le loro compagne con quelle dei colleghi e viceversa. Sniffano e intavolano gare sul biglietto da visita più bello. Ascoltano Huey Lewis and the News e vestono Armani Couture. Il loro idolo è Donald Trump e i loro corpi scultorei vengono costruiti con ore di esercizi mattutini, scrub per la pelle, massaggi e oli idratanti.
Annientamento, Alienazione, Astrazione
Sotto questa patina da Vogue, resta però l’alienazione di Bateman. Lui ti parla, magari ti sorride e ti rimorchia in discoteca, ma in realtà non è lì. E non prova niente, se non avidità e disgusto, come ammette egli stesso. I quaderni su cui scarabocchia mentre fa finta di lavorare sono imbrattati di orrore e pazzia, così come ne è affollata la mente. Cinico, freddo, spietato, disumano. Patrick quando vede una bella ragazza non pensa come sarebbe corteggiarla, ma a che effetto farebbe la sua testa su un palo, citando il serial killer Ed Gein.
Patrick Bateman è un uomo destrutturato. Il suo spirito è annichilito, annientato da uno stile di vita in grado di dissipare tutto ciò che è positivo. Patrick Bateman viene risucchiato dentro il maelstrom vorticoso della rabbia che sopperisce ad ogni altro sentimento. La superficie diventa un culto e un dogma. Lo sfarzo, la droga, il sesso, i rolex sono il lussuoso packaging di un vuoto esistenziale terrificante, di un’astrazione abissale dal reale, sebbene ci sia rimasto poco e niente di tale. Patrick Bateman diventa l’icona del male assoluto e dell’inconsistenza della pop culture.
Il romanzo è terribilmente provocatorio, scevro di qualsiasi ‘scusa’ mentre quella gioventù senza valori brucia nel proprio horror vacui. Le pagine narrano depravazioni in prima persona, episodi per stomaci forti e menti salde. Patrick uccide un bambino o mangia una medusa con più facilità di quanto riesca a prenotare un tavolo al Dorsia. E questo mondo notturno e raccapricciante fa il palio con le disquisizioni sulla discografia dei Genesis e sull’apartheid. Nel frattempo, la sua bramosia di sangue balla un diabolico valzer con la figura di Paul Allen, una specie di Patrick 2.0, con l’appartamento più costoso, il misterioso ‘portafoglio Fisher’ e il biglietto da visita più figo.
Dopo aver sgozzato e maciullato corpi, fatto ‘sessioni’ registrate di sesso selvaggio, la psicosi di Bateman diventa galoppante. Vicende che restituiscono una sorta di disgregazione della realtà filtrata da un sistema cognitivo avulso da ogni collegamento con la sfera emotiva. Ultraviolenza e figure spersonalizzate, Bret Easton Ellis – allora 26enne come il protagonista di American Psycho – non lesina particolari malati, granguignoleschi e la ‘sua creatura’ sembra non nutrire nessuna preoccupazione sull’essere scoperto né prova rimorso. L’insopprimibile istinto omicida lo domina e scorrendo le pagine, diventa evidente come quelle ‘voglie notturne’ inizino ad assalirlo anche di giorno.
Verità o allucinazioni?
L’epilogo è una spirale macabra e allucinata, ma anche ‘scoppiettante’. Dopo l’ennesimo massacro Patrick chiamerà il suo avvocato per una delirante confessione…un finale ambiguo di cui non voglio svelare i dettagli per chi ancora non avesse letto il libro. “Ma anche dopo aver ammesso questo non c’è catarsi: la mia punizione continua a eludermi, e io non giungo a una più profonda conoscenza di me stesso. Nessuna nuova conoscenza si può estrarre dalle mie parole. Questa confessione non ha nessun significato”. Con questa frase chiude American Psycho, un libro agghiacciante, estremo, a tratti consapevolmente grottesco. Il ritratto crudo di una generazione persa nel vuoto cosmico, feroce, sopra le righe, che critica aspramente il materialismo imperante. Scritto in maniera brillante, originale, avanti decenni per l’epoca in cui è stato pubblicato, è davvero un capolavoro…ma non adatto a tutti.