Provate a tornare bambini. Sì, proprio così. Chiudete gli occhi e immaginate di avere di nuovo sei, sette anni. Le ginocchia sbucciate, la fantasia accesa, il cuore che corre più veloce delle gambe. E immaginate di scoprire il mondo, un marciapiede alla volta, una panchina alla volta. Una piazza alla volta. Pensate alla vostra città. Pensatela come casa, come rifugio, come campo da gioco. Pensatela come la pensano i bambini: un luogo dove tutto è ancora possibile. Ora portatelo, quel bambino, nella nuova piazza della stazione di Frosinone. Una distesa bianca, spoglia, riflettente. Cemento bollente al posto degli alberi. Silenzio al posto delle risate. Regole al posto della libertà. E ora chiedetevi: cosa dovrebbe farci un bambino qui?
Dove il pallone è un crimine e l’avventura non esiste
Giocare a palla? Vietato, multa fino a 500 euro. Correre? Dove, se ogni passo rimbalza sul bianco abbacinante di un pavimento senza ombra né tregua? Salire su uno scivolo, inventarsi un’avventura? Non ci sono giochi, non c’è verde, non c’è vita. Allora che si fa? Si torna a casa. Si danno al bambino un tablet, un telefonino. Così almeno sta fermo. Così almeno non disturba. Così almeno non si nota quanto questa piazza sia stata pensata senza di lui. Ma è davvero questo che vogliamo? Una città in cui i bambini non giocano più? Dove crescere significa rassegnarsi?
I rischi dell’infanzia negata
L’infanzia digitale, se lasciata sola, diventa pericolosa. Obesità, insonnia, disturbi visivi, isolamento sociale. Bambini che non sanno più relazionarsi, che non conoscono il limite, che non imparano a litigare, a fare pace, a cadere e rialzarsi.
Ma la città, quella vera, era anche questo. Era la palestra della vita. Era il luogo dove si sbagliava e si imparava. Dove si cresceva insieme. E allora torniamo a quella piazza. Pensiamola tra qualche anno. Il bambino è cresciuto. È un ragazzo. Vuole uscire, magari con gli amici, magari con la ragazza. Dove va? In quella piazza? E a fare cosa? A fissare il cemento rovente? A sedersi su panchine arroventate dal sole? A cercare un’ombra che non c’è?
Cosa stiamo davvero festeggiando?
Cos’è diventata, davvero, quella piazza? Un palco per eventi? Un monumento all’ego di qualcuno? Un tappeto bianco da mostrare nelle inaugurazioni?
Domani, 7 giugno, ci sarà la festa. L’inaugurazione. Ma che cosa si festeggia, esattamente? Forse la fine di un’idea di città, quella vissuta e condivisa, per dare spazio a una vetrina senz’anima. Forse si celebra l’ennesima occasione mancata, il vuoto camuffato da modernità. Forse si brinda a un’opera che non ha pensato a chi ci vive, ma solo a chi la guarda da lontano.
Ma una piazza senza persone non è una piazza. È un deserto. E una città senza bambini è una città senza futuro. Cambiare il volto urbanistico di un quartiere vuol dire anche cambiarne la morale. E oggi, la morale che si legge in questa piazza è una sola: qui non c’è posto per voi. Non per i bambini. Non per i giovani. Non per chi ha bisogno di uno spazio per essere sé stesso.
E allora si scappa. Da Frosinone. Dallo Scalo. Dalla propria città. Eppure basterebbe così poco. Un albero. Una fontana. Un’altalena. Un gesto. Un pensiero. Un’idea di città che parta non dal cemento, ma dal cuore. Perché le città non sono fatte di piazze, ma di persone. E senza le persone, anche la piazza più bianca è solo una distesa grigia.