Frosinone – Non una lite per una donna come avevano riferito agli inquirenti, nei giorni successivi all’agguato, le vittime della sparatoria ricoverate in ospedale ma una sanguinosa resa dei conti legata al controllo delle piazze di spaccio tra gruppi rivali: è questo lo scenario che emerge con chiarezza dalle motivazioni della sentenza con cui il Tribunale di Frosinone ha condannato a 20 anni di reclusione Mikea Zaka, ritenuto responsabile dell’omicidio di Kasmi Kasem e del tentato omicidio di tre connazionali, Ervin Kasmi, Klevi Hidraliu e Alvider Hidraliu, avvenuto davanti allo “Shake Bar” il 9 marzo 2024. – LEGGI QUI.



Il giudice per le indagini preliminari, dott. Antonello Bracaglia Morante, ha ricostruito un contesto fatto di tensioni crescenti tra gruppi contrapposti — legate al traffico di droga in città — che si contendevano le piazze di spaccio, in particolare quelle del cosiddetto “Casermone” e nuove zone in via di conquista come Alatri.
Secondo quanto riportato in sentenza, Zaka gestiva una piccola piazza di spaccio proprio al Casermone, ed era in forte contrasto con un altro gruppo di albanesi. Le tensioni andavano avanti da tempo ed erano già state oggetto di tentativi di mediazione, condotti da un altro pregiudicato legato ai rivali. La sera del 9 marzo, però, le cose sono precipitate. Zaka se lo aspettava e per questo, secondo il Gip, girava sempre armato di pistola.
Dalle intercettazioni ambientali e telefoniche emerge che i fratelli Kasmi e Hidraliu si sarebbero presentati per un chiarimento, probabilmente inviati proprio dal gruppo avversario. Ma Zaka, armato e deciso a reagire, avrebbe visto in quell’incontro l’ennesima provocazione. Come racconta lui stesso in una conversazione intercettata in carcere: «sono venuti a rompermi il c… perché ce li hanno mandati».
“Saremo noi i padroni”
Non solo. Dagli atti emerge anche il ruolo di un giovane, considerato il capo del gruppo dominante del Casermone e vero referente criminale di Zaka. L’uomo, da anni attivo nello spaccio a Frosinone, per gli investigatori, voleva monopolizzare il controllo delle piazze usando la violenza come strumento di affermazione.
In un’altra intercettazione, un sodale di Zaka ribadisce che, una volta passata la tempesta mediatica e giudiziaria, sarebbero stati loro a gestire il traffico: «prima si devono calmare le cose, poi saremo noi i padroni di tutto il resto».
Dalla sentenza emerge dunque un quadro ben più ampio e allarmante: dietro l’agguato dello “Shake Bar” una vera e propria guerra per il controllo della droga in città, con ruoli, alleanze e gerarchie definite. Una guerra che — come confermano le stesse intercettazioni — avrebbe potuto portare ad altre azioni violente.