“Gatto nero, gatto bianco”: dove regna il caos. La sgangherata favola balcanica di Kusturica

La recensione della commedia nera datata 1998: un film a trazione musicale che intreccia amore, truffe e riti familiari

Gatto nero, gatto bianco (1998) è l’esempio paradigmatico della stagione più “in festa” di Emir Kusturica: un film che riconcilia l’istinto picaresco e farsesco con una complessa macchina autoriale capace di trasformare la marginalità socio-economica in spettacolo operistico. La pellicola — diretta da Kusturica e parlata in una mescolanza di romani, serbo e bulgaro — si presenta come una commedia nera a trazione musicale che intreccia amore, truffe, riti familiari e un’incessante presenza di musica e animali come elementi strutturanti della narrazione.

La surreale commedia racconta le disavventure di due famiglie zingare lungo il Danubio. Tra matrimoni combinati, truffe, debiti con la mafia e animali bizzarri che spuntano ovunque, i protagonisti cercano di cavarsela tra caos e imprevisti. Con ritmo grottesco e ironico, il film mostra un mondo colorato e sregolato dove l’amore e l’astuzia finiscono sempre per ribaltare ogni situazione.

Regia e struttura narrativa

La regia di Kusturica qui conferma il suo gusto per la digressione episodica: la trama principale (il matrimonio combinato, la fuga dei giovani, il furto di carburante) è meno importante del movimento continuo di corpi, musiche e piccole catastrofi quotidiane. La sceneggiatura di Gordan Mihić adotta la fisionomia del racconto picaresco e della commedia degli errori, ma lo fa filtrandola attraverso una grammatica visiva che privilegia il sovraccarico sensoriale — sovrapposizioni diegetiche, gag fisiche ripetute e un gusto per il dettaglio barocco. Questa strategia narrativo-formale produce uno sdoppiamento tonale: la superficie è comica e carnevalesca, mentre sotto affiorano toni melanconici e una percezione della precarietà tipica del crollo post-yugoslavo.

Interpretazioni e caratterizzazione dei personaggi

Il film funziona in larga parte grazie a un collettivo di interpreti che incarnano archetipi eterni (il rozzo furfante, il ragazzo innamorato, la vecchia matriarca) senza dissolvere la specificità etnica e sociale dei personaggi. Bajram Severdžan, Srđan Todorović e Branka Katić offrono prove che oscillano fra la macchietta e il ritratto psicologico, ma sempre in chiave performativa: Kusturica misura il tempo comico su respiri e micro-gesti, e pretende dagli attori una fisicità che diventa cifra stilistica (grottesco calibrato, esuberanza mimica, canto e danza come estensione mimetica del parlato). La coralità attoriale è, in definitiva, scelta estetica: il film è un teatro totale in movimento.

Fotografia e immagine: grammatica del colore e del movimento

La fotografia — firmata da Thierry Arbogast — è uno degli assi tecnici più decisivi del film: abbandonata la tavolozza grigia dei lavori precedenti, Kusturica e il director of photography adottano una luce «maggiore», saturata, che rende ogni inquadratura una composizione barocca. Il risultato è una spettacolarità cromatica che accentua la dimensione fiabesca della vicenda e amplifica il contrasto fra il degrado materiale e la ricchezza emotiva dei personaggi. L’uso ricorrente di campi lunghi e piani sequenza dinamici permette la coesistenza di più fuochi narrativi nello stesso fotogramma, favorendo la lettura della scena come tableau vivant in movimento.

Scenografia, costumi e mise-en-scène

La scenografia lavora sul recupero di materiali quotidiani e su un’estetica «rimessa a nuovo» del disordine: bancarelle, animali domestici e mestiere del recupero si concatenano in set costruiti per la sovrapposizione di piani diegetici. I costumi non tentano il realismo sociologico fine a sé stesso, ma declinano i personaggi in silhouette immediatamente leggibili (il prepotente ostentatore, la serva energica, il ragazzo innocente): sono dunque strumenti semiotici, non solo verosimili. La regia degli attori è spesso di tipo corale: Kusturica dispone i corpi come elementi ritmici di una partitura visiva.

Musica e dimensione sonora

La colonna sonora — attribuita principalmente a Dr. Nele Karajlić, Vojislav Aralica e Dejan Sparavalo nelle edizioni discografiche collegate al film — non è semplice accompagnamento ma vero e proprio co-autore del testo filmico. La musica agisce sia come motivazione diegetica (bande, suonate a domicilio, pezzi popolari eseguiti nel mondo del film) sia come commento extra-diegetico che costruisce il «clima» folclorico-caraibico del regista: temi ricorrenti, ritmi balcanici e orchestrazioni spiazzanti stabiliscono il tono tra festa e malinconia. La presenza costante del suono musicale orienta il montaggio e spesso sovrappone temporalità diverse, rendendo lo spettatore partecipe di una festa continua.

Montaggio e tempo filmico

Il montaggio di Svetolik-Mića Zajc predilige il raccordo ritmico alle transizioni «nascoste»: il montaggio dialoga con la colonna sonora e con la fisicità degli attori per stabilire gag visive e rimbalzi comici. Il tempo metrico del film è accelerato: molte scene sono costruite su accumulo, ripetizione e variazione — tecniche derivate tanto dalla commedia slapstick quanto dal teatro popolare. Questo montaggio «per accumulazione» è la chiave per leggere la durata (135 minuti) non come ridondanza ma come estensione necessaria del tono festoso e ipercinetico.

Tono, humor e dispositivo comico

L’umorismo di Gatto nero, gatto bianco è pluristratificato: commedie fisiche, battute linguistiche (il continuo switching di lingue), gag visive e ironia di situazione convivono con un humour nero che non esclude elementi di pathos. Kusturica declina il comico attraverso la sovraesposizione: la proliferazione degli eventi, la frequente messa in scena della morte e la sua quasi-annullamento comico costituiscono una strategia che tende all’epica popolare. Il paragone con Fellini — evocato da più critici per il tono onirico-carnascialesco — è utile ma rischia di semplificare: Kusturica lavora infatti su matrici balcaniche e post-sovietiche che richiedono letture specifiche.

Temi e rappresentazione culturale

Due sono i nuclei tematici dominanti: la celebrazione della vita collettiva (famiglia allargata, rituali, musica) e la visione paradossale della marginalità come luogo di inventiva sociale. Accanto al registro celebrativo, non manca tuttavia una questione critica — la rappresentazione dei Rom (e più in generale dei «gitani»): Kusturica alterna empatia e stereotipo; la spettacolarizzazione delle pratiche culturali può sovrapporsi a una lettura etnografica superficiale. Il film va dunque letto anche criticamente: come operazione estetica potente che però porta con sé il rischio della iconizzazione etnica.

Valore e collocazione critica

‘Gatto nero, gatto bianco’ è un film che conferma la cifra autoriale di Kusturica: una cine-festa che usa la sovrabbondanza scenica per parlare di identità, precarietà e resilienza. Tecniche come la fotografia vivida, la colonna sonora onnipresente, il montaggio accumulativo e una direzione degli attori che privilegia la fisicità fanno del film un esempio riuscito di cinema politico-popolare, capace di essere insieme intrattenimento e dispositivo di lettura sociale. Il film ha avuto una ricezione critica in prevalenza positiva ed è stato premiato col Leone d’Argento (Silver Lion) alla Mostra di Venezia: segni che la macchina spettacolare di Kusturica è stata riconosciuta tanto per la sua originalità stilistica quanto per l’efficacia comunicativa.

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Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli, giornalista pubblicista, specializzata in sport ma con una passione anche per musica, cinema, teatro ed arti. Ha collaborato per diversi anni con il quotidiano Ciociaria Oggi, sia per l'edizione cartacea che per il web nonché con il magazine di arti sceniche www.scenecontemporanee.it. Ha lavorato anche come speaker prima per Nuova Rete e poi per Radio Day e come presentatrice di eventi. Ha altresì curato gli uffici stampa della Argos Volley in serie A1 e A2 e del Sora Calcio.

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