1966, New York. Guy e Rosemary si prendono in affitto un appartamento in un palazzo dalla fama sinistra. Vengono accolti in modo affettuoso dai nuovi vicini, una coppia di arzilli vecchietti, Minnie e Roman Castevet. Ma cominciano ad accadere cose strane e misteriose e quando Rosemary rimane incinta, le cose peggiorano. La gravidanza di Rosemary viene turbata da premonizioni e incubi notturni, da inspiegabili dolori addominali e strani incontri, e soprattutto dall’invadenza di due vicini, troppo premurosi per non risultare sospetti…
Rosemary’s Baby è un romanzo horror scritto da Ira Levin nel 1967. È il secondo e sicuramente il più noto tra i romanzi pubblicati dall’autore statunitense. Un anno dopo nel 1968, dal libro è stato tratto il film Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York, con Mia Farrow (nella parte di Rosemary) e John Cassavetes, per la regia di Roman Polański.
Non è tutto oro quello che luccica
Quando la giovane e felice coppia di innamorati decide di trasferirsi in un condominio nel cuore di Manhattan, le cose sembrano subito prendere una piega positiva. Dopo il trasferimento, i novelli sposi sono attesi da meravigliose sorprese: Guy, attore in cerca di successo, ottiene finalmente una parte in una commedia, Rosemary, invece, resta incinta del loro primo figlio. Ma questa serie di fortunati eventi è in realtà legata da un fil rouge maligno e ansiogeno. Della serie che non è tutto oro ciò che luccica. Il male si annida – come troppo spesso la cronaca ci insegna – tra le mura domestiche ed è proprio sotto il tetto dell’amore che si snoderà il calvario della fragile protagonista. I vicini non sono soltanto una coppia di anziani impiccioni troppo invadenti e sono abbastanza certa di non cadere in un clamoroso spoiler se in sede di stesura di questa recensione vi dirò che la loro identità è molto più inquietante: il loro è un mondo fatto di streghe, fattucchiere, adoratori di Satana, pozioni e amuleti…
Il fascino manipolatore del male
Il male tende ad avviluppare nelle sue spire oltraggiose chiunque punti. E spesso lo fa avvalendosi della manipolazione di figure solo all’apparenza bonarie e affidabili. D’altronde capire di essere raggirati da un amico, da qualcuno che si dimostra disponibile ad aiutare, che tende amorevolmente una mano è certamente complicato. È quanto capita all’inconsapevole Rosemary. Leggendo queste pagine siamo testimoni di un graduale annichilimento della personalità e della forza di volontà della donna, la quale tende sempre a giustificare gli eventi sinistri e inquietanti che le accadono, minimizza, permette ad altri di decidere della sua vita e soprattutto della gestione della sua gravidanza. Ma quella sua mancanza di punti di riferimento non la rendono del tutto inerme. Rosemary comincerà a porsi delle domande: sono davvero solo incubi quelli che la opprimono? O davvero è circondata da esaltati, traditori, pericolosi bugiardi? Il suo nido d’amore è per caso insidiato dal tormento, dalla magia nera, dal fanatismo a sfondo satanico?
Un horror atipico
La mousse era ottima, ma aveva un retrogusto come di gesso, che a Rosemary ricordò la scuola e le lavagne. Guy assaggiò ma non riuscì a distinguere nessun «retrogusto», né di gesso né di altro. Dopo averne mangiato due cucchiaiate, Rosemary mise via la mousse. Guy chiese: «Non la finisci? Sciocchezze, cara, non c’è nessun retrogusto». Rosemary insisté: c’era. «Via, su», disse Guy, «quella vecchia scema ha sfacchinato tutto il giorno davanti ai fornelli per prepararla: mangiala». «Ma non mi piace», replicò Rosemary. «È buonissima». «Mangia anche la mia». Guy s’accigliò. «E va bene, non mangiarla. Visto che non porti l’amuleto che ti ha regalato, puoi anche non mangiare il suo dessert».
Un romanzo che oltre alle paure scandaglia l’anima superficiale, vanesia e ambiziosa dell’uomo. Rosemary’s Baby non è solo un horror, ma è anche, e forse soprattutto, un thriller psicologico che ammanta diabolicamente una struttura narrativa a spirale, con poche descrizioni, molti dialoghi, e la giusta dose di azione. Non ci sono spargimenti di sangue, è un volume anemico in fatto di jump-scare. Ma riesce egualmente a provocare malessere perché alla fine il vero nemico è solo uno: l’uomo stesso. Sono le persone che crediamo di conoscere quelle di cui dobbiamo diffidare. E sono le cose che desideriamo quelle da cui dovremmo tenerci lontani. Anche lo stile non è quello tipico del genere: la scrittura di Ira Levin non è certamente concitata come ci si aspetterebbe. Ricorda piuttosto riviste patinate e persino commedie brillanti anni ’60. Un mix particolare ma che funziona evidenziando che spesso dietro la parvenza di perfezione si nasconde l’inganno. Il ritmo è costante, procede. Un pregio dell’autore è quello di saper immergere il lettore totalmente nell’atmosfera. Ma in sostanza, riesce a spaventare? Sì, con quanto di astratto ci sia intorno a noi. Con un sorriso, un gesto gentile, una carezza. Perché spesso è dietro al bene che il male riesce a celarsi con maestria. E quando riusciamo a vederlo, ormai, è troppo tardi. Levin riesce a stuzzicare l’immaginazione e ad impaurire il lettore con un continuo crescendo di suspense, non senza un pizzico di sana ironia. L’intero dramma di Rosemary trova sfogo nell’epilogo, in un finale macabro, potente, agghiacciante. Un tragico finale possibile esclusivamente dal cuore dilaniato di una donna che voleva solo essere madre. Le tentazioni all’inizio sembrano tutte delle possibilità meravigliose…finché non ti fanno cadere il mondo addosso. Suggestivo.