È una storia di sofferenza, paura, ma soprattutto di speranza e gratitudine quella che arriva da Sora, dove un giovane militare ha rischiato di perdere la vita a causa di una grave infezione trovando però nell’ospedale SS Trinità un vero e proprio miracolo umano e medico.
«Devo dire grazie 131 volte», esordisce la moglie – contattata dalla nostra Redazione – con voce carica di emozione, «tanti quanti sono stati i giorni trascorsi da mio marito dal primo intervento salvavita al secondo, quello che lo ha riportato a una vita quasi normale».
La donna, originaria della Sicilia, come il marito, e lontana chilometri dalla famiglia, racconta il dramma vissuto: «Mio marito ha fatto avanti e dietro per anni nei Pronto soccorso, anche a Palermo. Visite, esami, qualche antidolorifico e poi lo rimandavano a casa. Nessuno che ci abbia mai detto di approfondire, nessuno che gli abbia mai dato una diagnosi e, soprattutto, nessuno che gli abbia mai detto che fosse necessario un intervento chirurgico per risolvere il problema ed evitare complicanze. E invece quelle complicanze sono arrivate come un fulmine a ciel sereno. Nei mesi scorsi è giunto al Pronto soccorso del Santissima Trinità di Sora in condizioni gravissime. I dolori erano lancinanti. Lo hanno monitorato a lungo nella sala arancio, senza mai essere superficiali. I risultati degli accertamenti sono stati subito chiari: aveva un’infezione che stava per strappargli la vita. Non hanno potuto trasferirlo in elisoccorso perché il tempo era pochissimo. Hanno agito».
È stato il reparto di chirurgia a cambiare il destino di quell’uomo di 43 anni. «Il chirurgo, il professor Mezzetti, quella sera è stato lucido e tempestivo, è intervenuto immediatamente, salvandolo».
Il primo intervento, d’urgenza, è stato duro: «Mio marito è uscito con una stomia, una ferita dolorosa anche dal punto di vista emotivo, ma era vivo. Il chirurgo stesso era dispiaciuto che si fosse arrivati a tanto, perché un intervento di ruotine, se solo qualcuno a tempo debito ce lo avesse detto, avrebbe potuto evitare tutto questo». – Prosegue la donna.
“Nel reparto di chirurgia abbiamo trovato una famiglia”
Durante il lungo percorso ospedaliero, racconta ancora la moglie del militare: «non ci siamo mai sentiti soli, anche se eravamo lontani da casa. Infermieri e operatori socio-sanitari sono stati una famiglia per noi, con affetto e professionalità ci hanno sostenuti anche psicologicamente, aiutandoci a non cedere».
La famiglia, con tre figli minori e senza aiuti parentali vicini, ha trovato nell’ospedale di Sora un punto di riferimento: «Io sono in questa città da sedici anni, mio marito è arrivato a Sora ancor prima ma qui non abbiamo nessuno di famiglia. Eppure al Santissima Trinità ci siamo sentiti a casa».
Il dottor De Gregorio, il professor Mezzetti e tutto il personale – come spiega la donna – hanno dimostrato non solo competenza medica ma anche umanità profonda. Il 29 maggio c’è stato il secondo intervento per togliere la stomia. Ora il giovane papà sta bene e la sua vita sta lentamente tornando alla normalità.
«Lo avevano soprannominato “il coraggioso”, ma il coraggio vero ce lo hanno dato loro».
Il doppio volto della sanità
Questa storia, come tante altre raccontate, mette in luce un duplice volto della sanità del nostro Paese: da una parte la superficialità e le mancanze che possono costare vite, dall’altra la dedizione di chi, con cuore e professionalità, riesce a ribaltare ogni pronostico. «A Sora hanno fatto il miracolo – conclude la moglie – non solo salvandolo, ma donandoci una qualità di vita che non speravamo più. Quando andiamo ai controlli, mio marito si sente protetto, lo abbracciano, è davvero come una famiglia».
«Se denunciare la malasanità è diritto di ogni cittadino, esprimere la mia gratitudine è un dovere», conclude la donna. Un grazie che supera ogni parola, una testimonianza che ci ricorda quanto di buono ci sia nella nostra sanità pubblica, quella fatta di persone, di passione per il proprio lavoro, di amore per il prossimo e di una missione su tutte: salvare vite.