‘Old Boy’, la verità condannante di Park Chan-wook: gli abissi della vendetta nella tragedia moderna

La recensione di quella che è considerata come un’opera capitale del cinema contemporaneo: oltre le immagini, oltre il genere

Quando nel 2004 Quentin Tarantino, presidente di giuria al Festival di Cannes, annunciò il Gran Premio della Giuria a Oldboy di Park Chan-wook, il cinema mondiale si accorse che qualcosa di dirompente stava arrivando dall’Estremo Oriente. Non si trattava soltanto di un thriller coreano di eccezionale fattura: era l’irruzione sulla scena internazionale di un’estetica nuova, feroce e barocca, capace di unire il rigore narrativo con la vertigine visionaria. Da allora, Oldboy è diventato un punto di riferimento imprescindibile per il cinema globale, non solo per la violenza stilizzata che lo ha reso iconico, ma per la profondità tragica che ne attraversa ogni fibra.

La trama

Il racconto, apparentemente lineare, ha la potenza di una parabola universale: Oh Dae-su, uomo mediocre e sregolato, viene rapito e rinchiuso in una cella per quindici anni, senza motivo né spiegazioni. Liberato all’improvviso, intraprende una caccia al suo carnefice, solo per scoprire che la verità è più devastante di qualunque vendetta. È una trama che ha la limpidezza della favola nera, ma che si dipana come un rebus crudele, conducendo lo spettatore nel cuore dell’abisso.

La regia: la danza della crudeltà

La regia di Park Chan-wook è il primo elemento a imporsi con forza: elegante, coreografica, al tempo stesso manierista e disciplinata. Ogni carrellata, ogni movimento di macchina diventa parte di un disegno che imprigiona il protagonista e lo spettatore nello stesso labirinto visivo. La celebre sequenza del corridoio, girata in un unico piano sequenza, non è semplice virtuosismo tecnico: è un atto di resistenza fisica, un rito di iniziazione in cui la violenza perde ogni glamour per diventare fatica, sudore, dolore. In quel momento, il cinema d’azione occidentale, con i suoi eroi invincibili, viene radicalmente messo in discussione: qui l’eroe è un corpo ferito, che sanguina, che crolla e che tuttavia continua a rialzarsi.

La sceneggiatura: il meccanismo dell’abisso

La sceneggiatura, adattamento dal manga giapponese omonimo, trova in Park e nei suoi collaboratori una forma compiuta che travalica i confini del fumetto di genere. La narrazione procede per gradi di svelamento, come una spirale che si restringe attorno al protagonista, fino a farlo collidere con la verità più inaccettabile. È un congegno narrativo che richiama la tragedia classica: il tema dell’incesto, che culmina nella rivelazione finale, è la riproposizione moderna del mito edipico, con la differenza che qui non vi è catarsi, bensì condanna eterna. Se Sofocle mostrava l’inevitabilità del destino, Park mette in scena la prigionia psichica, l’impossibilità di emanciparsi dai fantasmi della memoria.

Il lavoro attoriale: carne e psiche

Choi Min-sik offre una performance di straordinaria intensità, capace di fondere fisicità animalesca e fragilità quasi infantile. Il suo Dae-su è un corpo martoriato, un’anima che si contorce sotto il peso di una rivelazione insostenibile. La metamorfosi del personaggio – dall’uomo mediocre e sciatto del prologo al vendicatore ossessivo, fino all’essere spezzato dall’agnizione finale – trova nel volto di Choi una gamma di espressioni che diventano icone del cinema contemporaneo. Non meno incisivo è Yoo Ji-tae nei panni dell’antagonista Woo-jin, che incarna la glaciale crudeltà del burattinaio, un uomo che vive solo per perpetuare un trauma rimosso. La sua interpretazione, misurata e avvolta in un’aura di enigmatico distacco, contrasta con l’esuberanza disperata di Choi, creando un dualismo perfetto. Lee Hye-jeong, nel ruolo di Mi-do, offre un’interpretazione di estrema delicatezza, sospesa tra innocenza e tragedia, vittima inconsapevole di un destino tessuto nell’ombra.

La fotografia: pittura della carne e del dolore

La fotografia di Chung-hoon Chung amplifica questa tensione con un uso del colore che oscilla tra la crudezza noir e la saturazione pop. I neon urbani che graffiano la notte, i rossi che dilagano come ferite, i contrasti violenti trasformano la città in un paesaggio mentale, un luogo che non è solo scenario, ma proiezione psichica. Il linguaggio cromatico diventa esso stesso narrazione, amplificando l’angoscia e trasformando la violenza in un’esperienza quasi estetizzante, disturbante proprio perché bella nella sua crudeltà. L’universo visivo di Oldboy ha influenzato decine di autori successivi, imponendo un’estetica che ha contaminato tanto l’Occidente quanto la stessa Corea del Sud.

La vendetta e la tragedia moderna

Ma ciò che rende Oldboy un’opera imprescindibile non è soltanto il suo stile. È il suo cuore filosofico: l’idea che la vendetta, lungi dall’essere catarsi, sia una prigione che divora chi la insegue. Il cinema americano ha spesso celebrato la revenge story come un percorso liberatorio; Park Chan-wook ribalta questo paradigma, mostrando che la verità, una volta conquistata, non redime ma annienta. In questo, Oldboy si iscrive nel registro della tragedia moderna: un racconto che non offre speranza, ma unicamente lo specchio dell’abisso.

Non stupisce che il film, pur divisivo alla sua uscita, sia oggi considerato un’opera capitale del cinema contemporaneo, capace di dialogare tanto con Nietzsche quanto con Freud, tanto con il manga quanto con Sofocle. È un mito cinematografico che non smette di interrogare chi lo guarda: fino a che punto la verità è un valore, e quando invece diventa una condanna?

Con Oldboy, Park Chan-wook ha creato un’esperienza che va oltre il cinema di genere, oltre il thriller e oltre il melodramma. È un poema visivo che ci costringe a guardare dentro l’abisso, con la consapevolezza che, come scriveva Nietzsche, quando si guarda troppo a lungo nell’abisso, l’abisso finisce per guardare dentro di noi.

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Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli, giornalista pubblicista, specializzata in sport ma con una passione anche per musica, cinema, teatro ed arti. Ha collaborato per diversi anni con il quotidiano Ciociaria Oggi, sia per l'edizione cartacea che per il web nonché con il magazine di arti sceniche www.scenecontemporanee.it. Ha lavorato anche come speaker prima per Nuova Rete e poi per Radio Day e come presentatrice di eventi. Ha altresì curato gli uffici stampa della Argos Volley in serie A1 e A2 e del Sora Calcio.

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