‘Legend’, il gangster movie che non ti aspetti: il fascino pericoloso di un doppio Tom Hardy

La recensione del film del 2015 scritto e diretto da Brian Helgeland, con protagonista Tom Hardy nel doppio ruolo dei gemelli Kray

Legend è un film del 2015 scritto e diretto da Brian Helgeland, con protagonista Tom Hardy nel doppio ruolo dei gemelli Kray, capi di un’organizzazione criminale britannica nell’East End di Londra negli Anni Cinquanta e Sessanta. La pellicola è l’adattamento cinematografico del libro The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins, scritto nel 1972 da John Pearson.

Il plot racconta l’ascesa criminale dei gemelli Ronnie e Reggie Kray, due tra i più famigerati gangster della Londra degli anni ’60. I due fratelli gestiscono un impero del crimine tra violenza, affari loschi e relazioni pericolose, affrontando nel contempo tensioni personali e conflitti psicologici. Il film esplora il legame viscerale tra i due, le ambizioni di potere e la loro inevitabile discesa verso la rovina.

La leggenda come costruzione mitopoietica

Nel vasto repertorio del gangster movie britannico, Legend si propone come una rielaborazione estetica e concettuale della parabola criminale dei gemelli Kray. Il film si colloca in una tradizione narrativa che ha fatto dell’ambivalenza morale il proprio asse portante, ma lo fa sovrapponendo alla cronaca una precisa volontà mitografica: restituire il crimine non solo come fenomeno storico, ma come architettura simbolica dell’identità.

Struttura narrativa: tra biopic e racconto elegiaco

La pellicola si sviluppa attraverso una narrazione ibrida che alterna rigore biografico e derive quasi elegiache. L’utilizzo della voce narrante di Frances Shea (Emily Browning), moglie di Reggie Kray, inserisce un filtro lirico agli eventi, orientando la narrazione verso una dimensione melodrammatica. Questo artificio letterario, pur se discutibile per alcuni eccessi sentimentalistici, si rivela funzionale nella costruzione di una prospettiva soggettiva che si allontana dalla mera cronaca giudiziaria.

Tom Hardy e il paradigma del doppio

Il nucleo magnetico dell’opera risiede nella duplice interpretazione di Tom Hardy, che dà corpo e psiche a entrambi i fratelli Kray. Hardy non si limita a distinguere Reggie e Ronnie mediante tecniche attoriali convenzionali, ma ne scolpisce due antropologie: il primo affabile, imprenditore del crimine, controllato nel gesto e nel tono; il secondo erratico, paranoico, dominato da pulsioni distruttive e deliri paranoidi. La performance si iscrive nella genealogia del “cinema del doppio”, come in Dead Ringers di Cronenberg o The Prestige di Nolan, ma con una fisicità quasi teatrale che ne amplifica il peso emotivo e psicanalitico.

Regia e linguaggio visivo: estetica manierista e tensione psicologica

Brian Helgeland orchestra un dispositivo filmico che alterna piani sequenza di grande virtuosismo a momenti di angosciante staticità, quasi beckettiana. La fotografia di Dick Pope lavora su una gamma cromatica dicotomica: luci calde e ambienti saturi per i momenti di ascesa e spettacolarizzazione criminale, toni freddi e cupi per restituire la deriva interiore e il collasso relazionale. Il montaggio, asciutto ma non frenetico, accompagna questo equilibrio tra bellezza compositiva e decadenza morale.

London Noir: ambientazione e dimensione sociopolitica

La Londra degli anni Sessanta, restituita con precisione documentaria e slancio estetico, non è mero fondale, ma parte integrante della narrazione. Le tensioni urbane, il contrasto tra il glamour delle celebrità e l’abiezione dei bassifondi criminali, fanno di Legend un’opera che dialoga con il noir metropolitano. Il club Esmeralda, le calli di Whitechapel, i locali notturni frequentati da politici e gangster diventano spazi liminali in cui si consuma la dialettica tra legalità e potere occulto.

Limiti e ambiguità: la seduzione del crimine

Nonostante l’indubbia raffinatezza formale, Legend rischia a tratti una certa estetizzazione del male, specie nelle sequenze in cui la figura dei Kray viene quasi glorificata. Tuttavia, questa ambivalenza sembra essere intenzionale: Helgeland non assolve, ma mostra. Non giudica, ma invita alla riflessione, lasciando che il carisma dei protagonisti si scontri con l’ineluttabilità della rovina.

Il doppio come destino

Legend si configura come un’opera stratificata e profondamente concettuale, in cui il crimine diventa linguaggio identitario, e la fratellanza si trasforma in condanna esistenziale. Il film va oltre il biopic per trasformarsi in una riflessione sull’identità, sull’impossibilità di redenzione e sul fascino inquietante dell’autodistruzione. Un film imperfetto, ma imprescindibile per chi voglia comprendere il rapporto tra cinema, mito e psicopatologia del potere.

Indicato per studiosi di cinema narrativo e psicoanalitico, per cultori del gangster movie europeo e per chi sa cogliere l’inquietudine che si nasconde dietro ogni leggenda.

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Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli
Cristina Lucarelli, giornalista pubblicista, specializzata in sport ma con una passione anche per musica, cinema, teatro ed arti. Ha collaborato per diversi anni con il quotidiano Ciociaria Oggi, sia per l'edizione cartacea che per il web nonché con il magazine di arti sceniche www.scenecontemporanee.it. Ha lavorato anche come speaker prima per Nuova Rete e poi per Radio Day, e presentatrice di eventi. Ha altresì curato gli uffici stampa della Argos Volley in serie A1 e A2 e del Sora Calcio.

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